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Il demansionamento al rientro per maternità

Il Ministero del lavoro ha risposto ad un interpello richiesto dal Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro che ha avanzato richiesta di al fine di conoscere il parere della Direzione generale per l’Attività Ispettiva in merito ad un ipotesi di legittimo demansionamento (articolo 9, D.Lgs. n. 124/2004 ) di una lavoratrice e come si contempla con la previsione della conservazione del posto di lavoro al rientro dalla maternità, articolo 56, D.Lgs. n. 151/2001.

Il Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro ha chiesto precisazioni sulla corretta interpretazione del disposto presente all’art. 56 del D.Lgs. n. 151/2001, con riferimento alle modalità di esercizio del diritto della lavoratrice al rientro e alla conservazione del posto di lavoro successivamente alla fruizione del periodo di astensione per maternità.

L’istante ha precisato che l’accordo intercorso tra la medesima lavoratrice, rientrante in servizio prima del compimento di un anno di età del bambino, e il datore di lavoro, avente per oggetto l’assegnazione a mansioni inferiori con eventuale decurtazione della retribuzione.

Questo particolare accordo, volto alla salvaguardia dell’interesse prevalente alla conservazione del posto di lavoro, troverebbe la propria ratio giustificatrice nell’oggettiva impossibilità di assegnare la lavoratrice alle mansioni da ultimo svolte, ovvero a mansioni equivalenti, a causa della oppressione della funzione o reparto cui la stessa era adibita anteriormente all’astensione.

Per la Direzione del ministero è necessario inquadrare la problematica nella cornice giuridica di cui all’articolo 2103 del codice civile.

Come ricorda la stessa Direzione generale per l’Attività Ispettiva le mansioni assegnate al lavoratore può svilupparsi in direzione orizzontale, mediante l’attribuzione di mansioni equivalenti  ovvero verticale  nell’ipotesi di assegnazione a mansioni superiori, risultando di regola preclusa la mobilità “verso il basso”.

Il vero problema è che manca una esplicita definizione di “equivalenza” di mansioni lasciando alla giurisprudenza e alla contrattazione collettiva il compito di individuare gli indici della stessa, al fine di verificare se siano stati o meno rispettati i limiti fissati dall’articolo 2103 del codice civile.

Si sensi del quale

il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito, ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione (…) ogni patto contrario è nullo.

Il concetto di equivalenza presuppone non solo che le nuove mansioni consentano l’estrinsecazione della professionalità già acquisita, ma altresì che il lavoratore possa, nell’ambito del differente inquadramento funzionale, conseguire quegli incrementi di professionalità che avrebbe potuto acquisire mediante lo svolgimento delle mansioni originarie.

Per la Corte di Cassazionel’articolo 2103 del codice civile deve essere interpretato nel senso di considerare di regola illegittima l’adibizione del lavoratore a mansioni inferiori, in ragione dell’espressa sanzione di nullità.

La Suprema Corte ha sostenuto la non applicabilità della norma in questione laddove l’accordo che preveda l’assegnazione di mansioni di grado inferiore alle ultime svolte  corrisponda all’interesse del lavoratore stesso.

Infatti, nelle ipotesi di sopravvenute e legittime scelte imprenditoriali comportanti
l’esternalizzazione dei servizi ovvero la loro riduzione a seguito di processi di riconversione o
ristrutturazione aziendali, l’adibizione del lavoratore a mansioni diverse, anche inferiori, a quelle
precedentemente espletate, la norma civilistica non si pone in contrasto con la decisione del datore di lavoro.

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