Si è creato un precedente in Italia per il quale troppo lavoro non sarebbe mobbing, stando ad una recente sentenza. La giurisprudenza sul mobbing – ovvero gli atti persecutori subiti da colleghi, superiori o datori di lavoro – è vasta e in continua evoluzione, con numerose sentenze che definiscono i confini entro cui un dipendente può tutelarsi legalmente e richiedere un risarcimento.

Giurisprudenza sui casi di mobbing in Italia
Di recente, la Corte di Cassazione è intervenuta nuovamente sul tema con la sentenza n. 14890, chiarendo un punto fondamentale: un aumento del carico di lavoro non configura automaticamente mobbing. Questo principio è valido a patto che vengano rispettate specifiche condizioni, che eliminano ogni dubbio sulla natura delle azioni aziendali.
Nel corso di questo approfondimento, vedremo quali sono queste condizioni e perché la decisione della Suprema Corte è un punto di riferimento cruciale per distinguere il mobbing da situazioni di semplice, seppur intenso, stress lavorativo.
In molti settori, i ritmi lavorativi possono essere estremamente sostenuti, con picchi stagionali dovuti all’aumento di clienti o ordini. In un contesto simile, un dipendente ha citato in giudizio la sua azienda, accusando mobbing o, in alternativa, straining (una forma attenuata di mobbing).
Durante il processo, i giudici hanno esaminato i fatti e i comportamenti, concludendo che il datore di lavoro non aveva commesso alcuna irregolarità nell’imporre carichi e responsabilità che rendevano le attività quotidiane particolarmente intense. Nello specifico, ai dipendenti era stato chiesto di raggiungere obiettivi di vendita più ambiziosi.
Secondo la magistratura, queste erano scelte organizzative e produttive perfettamente legittime, rientranti nel potere direttivo, organizzativo e di controllo dell’imprenditore, come previsto dagli articoli 2086 e 2104 del Codice Civile. In pratica, un datore di lavoro non commette illeciti se mira a migliorare la produttività e la gestione dell’impresa, anche se ciò richiede un impegno maggiore da parte del personale.
Lo stress che ne deriva non è automaticamente mobbing. I giudici hanno stabilito che non c’era un intento deliberato di affaticare il personale, ma piuttosto una conseguenza dell’attività stessa, accettata dal lavoratore al momento della firma del contratto. L’organizzazione gerarchica e i carichi di lavoro, del resto, erano noti al dipendente fin dall’inizio, così come le richieste che l’incarico avrebbe comportato. Per queste ragioni, l’azione legale si è conclusa con esito negativo per il lavoratore, che ha deciso di ricorrere in Cassazione.
La decisione della Cassazione e l’onere della prova
I giudici della Corte di Cassazione hanno confermato quanto stabilito nei precedenti gradi di giudizio. Hanno ribadito che un lavoro impegnativo, che richiede molte energie fisiche e mentali e può portare ad affaticamento, non costituisce automaticamente mobbing. Non rappresenta nemmeno una condotta mirata a penalizzare un singolo dipendente.
La Corte ha sottolineato la validità dell’iter logico-giuridico seguito e ha evidenziato come la consapevolezza, da parte del lavoratore, della natura impegnativa dell’impiego escluda la responsabilità del datore. Tuttavia, è fondamentale specificare: il carico di lavoro non deve mai diventare estremo o disumano, altrimenti si potrebbe configurare il mobbing.





