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Il mobbing e la corte di Cassazione

La Suprema corte con la sentenza dello scorso 21 dicembre 2010 n. 44803 ha voluto dare ulteriori indicazioni sul mobbing nei luoghi di lavoro visto che, ad oggi, non esiste ancora nessuna legge in materia che inquadri il fenomeno.

La Corte di Cassazione ha deciso che le vessazioni subite sul luogo di lavoro poste in essere attraverso atti moralmente violenti e psicologicamente minacciosi non sono da considerarsi mobbing (articolo 612-bis codice penale), ma sono da far rientrare nella sfera del reato di violenza privata.

Nel caso oggetto della decisione, un capo officina è stato denunciato da un operaio con qualifica di meccanico per maltrattamento.

Il tribunale di primo grado, e quello di appello, avevano condannato il capo officina per maltrattamenti continuati condannandolo alla pena di otto mesi.

Secondo il parere della Cassazione, il reato per essere considerato mobbing occorre un rapporto tra soggetto agente e soggetto passivo caratterizzato da un potere autoritativo, esercitato di fatto e di diritto dal primo verso il secondo il quale versi in una situazione di apprezzabile soggezione, anche di natura meramente morale o psicologica nei confronti del soggetto attivo.

Nel caso dibattuto il reato è stato fatto rientrare tra la violenza privata continuata aggravata poiché il lavoratore ha dovuto tollerare uno stato di deprezzamento delle sue qualità lavorative nel contesto di una condotta articolata in più atti consequenziali ad un medesimo disegno criminoso, con l’intuibile aggravante della commissione del fatto con abuso di relazioni di prestazioni d’opera.

La Cassazione ha anche posto in evidenza la mancanza di una legge specifica sulle vessazioni in ambito lavorativo che preveda conseguenze penali che, ad oggi, ne impediscono il ricorso.

È possibile ricorrere nei casi in cui il rapporto tra datore di lavoro e dipendente vessato sia simile a quello familiare.

In effetti, è possibile, nei grandi complessi aziendali, ricorrere al giudice competente per materie civili.

Il lavoratore può invocare almeno il danno morale, ovvero ogni evento negativo penalmente rilevante, o quello patrimoniale, qualsiasi danno fatto ricadere nella sfera dei beni quali retribuzione, carriera o professionalità.

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