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Dimissioni volontarie? Nessuna indennità di disoccupazione

L’Inps con messaggio n. 16825/2010 ha chiarito che l’indennità di disoccupazione non spetta al lavoratore che si dimette volontariamente, così come prevede la Legge n. 448 del 1998.

Secondo l’articolo 34 l’indennità di disoccupazione per dimissioni volontarie non comporta nessun obbligo per l’istituto previdenziale.

In effetti, il contenuto della legge è abbastanza chiaro perchè stabilisce che la cessazione del rapporto di lavoro per dimissioni intervenuta con decorrenza successiva al 31 dicembre 1998 non dà titolo alla concessione della indennità di disoccupazione ordinaria, agricola e non agricola, con requisiti normali di cui al regio decreto-legge 4 ottobre 1935, n. 1827, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 aprile 1936, n. 1155, e successive modificazioni e integrazioni, e con requisiti ridotti di cui al decreto-legge 21 marzo 1988, n. 86, convertito, con modificazioni, dalla legge 20 maggio 1988, n. 160, e successive modificazioni e integrazioni.

Attraverso il messaggio n. 16825 il primario istituto previdenziale per i lavoratori privati conferma così che non è dovuto l’assegno di disoccupazione in presenza di dimissioni volontarie.

Come più volte ribadito, le prestazioni a sostegno del reddito sono dirette a tutelare il lavoratore in particolari momenti della sua vita professionale e privata. L’indennità di disoccupazione concessa dall’Inps risponde a questa finalità, garantendo, in presenza dei requisiti previsti dalla legge, un aiuto economico che sostituisca il reddito da lavoro.

Per questa ragione è impossibile corrispondere l’indennità di disoccupazione al lavoratore che si dimette volontariamente, ossia quando sono presenti ragioni soggettive che impediscono al lavoratore di continuare il rapporto di lavoro.

Al contrario, in presenza di licenziamento, sospensione per mancanza di lavoro, scadenza del contratto o dimissioni per giusta causa è possibile chiedere all’Inps la relativa indennità.

In questo caso le dimissioni devono essere determinate, ad esempio, da molestie sessuali, dal mancato pagamento della retribuzione o per la modifica peggiorativa delle mansioni lavorative.

L’istituto previdenziale considera anche i casi di mobbing o lo spostamento del lavoratore da una sede all’altra, senza comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive.

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