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Riforma del lavoro 2012, l’associazione in partecipazione

 La recente riforma del lavoro 2012 voluta fortemente dal Governo Monti e, in particolare, dal ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali Elsa Fornero, è stata messa a punto allo scopo di incentivare la crescita del nostro sistema Paese anche se, al momento, non si registra nessuna positiva novità.

Ad ogni modo, il provvedimento, legge n. 92/2012, interviene sostanzialmente anche sull’associazione in partecipazione al fine di evitare abusi; infatti, la legge interviene su questa particolare tipologia contrattuale ai commi 28, 29, 30 e 31.

Nel rapporto di lavoro di tipo associazione in partecipazione, lo ricordiamo, si intende realizzare una collaborazione tra più soggetti allo scopo di raggiungere un risultato comune. La forma di collaborazione prevede che l’apporto al risultato comune può essere di qualunque tipo a patto che questo possa essere inquadrato come strumentale per l’esercizio dell’impresa.

Infatti, in questa prospettiva si può inquadrare un rapporto di lavoro di questo tipo anche se il conferimento è in denaro, in proprietà, in godimento o in una prestazione lavorativa.

La riforma del lavoro prevede l’abrogazione dell’articolo 86, comma 2, del decreto legislativo n. 276 del 10 settembre 2003 introducendo la possibilità per il prestatore di conseguire i trattamenti contributivi, economici e normativi stabiliti dalla legge e dai contratti collettivi per il lavoro subordinato svolto nella posizione corrispondente del medesimo settore di attività a patto che il rapporto di lavoro venga reso senza una effettiva partecipazione.

Non solo, il comma 30 della riforma del lavoro 2012 prevede che

I rapporti di associazione in partecipazione con apporto di lavoro instaurati o attuati senza che vi sia stata un’effettiva partecipazione dell’associato agli utili dell’impresa o dell’affare, ovvero senza consegna del rendiconto previsto dall’articolo 2552 del codice civile, si presumono, salva prova contraria, rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato.

In questa prospettiva è il datore di lavoro, o committente, a dimostrare che il rapporto di lavoro non è del tipo subordinato ogni volta che in un rapprto di questo tipo vi sia un apporto lavorativo.

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