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Corte di Cassazione e l’obbligo di repechage

La corte di Cassazione con sentenza n. 16579 del 15 luglio 2010 ha stabilito che l’obbligo di repechage è esteso a tutte le strutture aziendali ed è responsabilità dell’azienda provare l’impossibilità del ricollocamento del lavoratore.

Nel caso di specie il lavoratore era assunto e prestava la sua attività professionale in una delle filiali estere di una società italiana.

La corte di Cassazione, in sede dibattimentale, ha rilevato che le due parti erano italiane, datore di lavoro e lavoratore, con residenza e nazionalità italiane. Il lavoratore prestava il suo operato nell’interesse del datore di lavoro presso una sua filiale estera: la società di capitali ha sede in Italia è ed soggetta al diritto italiano.

Il licenziamento operato dal datore di lavoro è stato intimato per giustificato motivo così come prevede la legge del 15 luglio 1966 n. 604, norme sui licenziamenti individuali. Il licenziamento per giustificato motivo con preavviso è determinato da un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro ovvero da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa.

Il datore di lavoro non può limitarsi semplicemente a enunciare il provvedimento ma deve stabilirne la legittimità, ovvero deve essere in grado di dimostrare in maniera inequivocabile le ragioni del provvedimento sotto l’ambito dell’effettività delle esigenze aziendali e nell’esistenza di nesso di casualità tra il recesso e le esigenze dell’azienda.

L’obbligo del datore di lavoro non si ferma qui.

Secondo la Suprema Corte il datore di lavoro deve dimostrare anche l’impossibilità al suo riutilizzo, con le stesse mansioni, in una qualsiasi struttura aziendale.

Con la locuzione qualsiasi struttura aziendale i giudici della sezione lavoro della corte di Cassazione intendono non solo la struttura aziendale in sé, ma anche tutte le sue eventuali articolazioni produttive (Sentenza della Corte di Cassazione n. 6245 del 2005).

Secondo la Suprema Corte non deve incidere minimamente l’eventuale articolazione aziendale anche se le eventuali filiali sono collocate all’estero.

Inoltre, anche se il lavoratore presta la sua opera in uno stato estero risultano comunque applicabili la normativa italiane e il contratto di lavoro relativo.

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