Va monitorato il problema dello stress da lavoro in Italia. Il benessere dei dipendenti è una priorità, e la legge italiana, attraverso l’articolo 2087 del Codice Civile, impone al datore di lavoro l’obbligo di tutelare l’integrità psicofisica dei propri lavoratori. Questo principio è stato recentemente rafforzato da una significativa sentenza della Corte di Cassazione (n. 123 del 4 gennaio 2025), che chiarisce la responsabilità del datore di lavoro anche in assenza di un vero e proprio “mobbing”, concentrandosi sugli effetti dannosi di un ambiente lavorativo stressogeno.

Cosa sappiamo sullo stress da lavoro in Italia
La vicenda in questione, sebbene avvenuta in una ASL, offre spunti di riflessione validi per qualsiasi contesto aziendale. Il cuore del problema era la decisione di un direttore generale di riorganizzare un ufficio legale, con la conseguente eliminazione della posizione dirigenziale ricoperta da un’avvocatessa. Nonostante la riorganizzazione fosse motivata e non avesse un intento persecutorio, la situazione degenerò in un clima di forte conflittualità personale tra il direttore e la dipendente.
La Corte d’Appello ha riconosciuto che, pur non essendoci mobbing, il datore di lavoro (la ASL) aveva una responsabilità. Questo perché la tensione e le provocazioni reciproche non erano state gestite adeguatamente. Anzi, il direttore stesso aveva adottato comportamenti “inopportuni” e “provocatori”, alimentando un “circolo vizioso” anziché ristabilire l’ordine e la serenità necessari per un ambiente lavorativo sano.
Si è parlato in questo contesto di “straining“, una forma attenuata di mobbing dove non è necessaria una pluralità di azioni vessatorie, ma bastano comportamenti stressogeni che producono effetti dannosi sulla persona. La Cassazione ha ribadito un concetto fondamentale già espresso in sentenze precedenti (come l’Ordinanza n. 3692 del 07/02/2023 e le più recenti n. 15957 del 7.6.2024, n. 3822 del 12.2.2024, n. 4664 del 21.2.2024): il datore di lavoro è responsabile per i danni alla salute del dipendente ogni volta che consente, anche per negligenza, il persistere di un ambiente di lavoro stressogeno.
Ciò include anche comportamenti che, di per sé, potrebbero sembrare leciti o isolati, ma che, contribuendo a un clima di disagio, aggravano il pregiudizio per la salute e la personalità del lavoratore. In pratica, anche quando un datore di lavoro agisce nel rispetto delle norme, se le sue azioni, il suo stile comunicativo o la sua gestione delle dinamiche interpersonali contribuiscono a creare stress o a peggiorare un ambiente già teso, ne sarà ritenuto responsabile.
Un aspetto particolarmente significativo della sentenza della Cassazione (n. 123 del 4 gennaio 2025) è l’enfasi sulla tutela dei lavoratori più “fragili”. L’articolo 2087 c.c. si applica a protezione di ogni lavoratore, e la sua “maggiore fragilità” non attenua, ma piuttosto incrementa gli obblighi del datore di lavoro di proteggerlo da fattori che possano causare malattie o stress. Questo significa che le aziende devono essere ancora più attente nel garantire un ambiente sereno e supportivo per i dipendenti che potrebbero essere più vulnerabili agli effetti negativi dello stress lavorativo.