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Lavoro pubblico e impugnazione delle sanzioni disciplinari

 Il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali per mezzo della sua Direzione generale per l’Attività Ispettiva ha deciso di rispondere all’interpello presentato dall’associazione sindacale NURSIND, Sindacato delle Professioni Infermieristiche, in merito alla impugnazione delle sanzioni disciplinari.

In particolare il NURSIND, osserva che

preso atto della circolare n. 28/2010 (…) avente ad oggetto impugnazione sanzioni disciplinari – applicabilità art. 7, commi 6 e 7, L. n. 300/1970 alle controversie relative al lavoro pubblico (…) chiede entro quale termine perentorio la sanzione disciplinare di un pubblico dipendente può essere impugnata davanti l’ufficio provinciale del lavoro stante l’inapplicabilità dell’art. 7 della L. n. 300/1970.

Una volta acquisito il parere della Direzione generale delle Relazioni Industriali e dei Rapporti di Lavoro, della Direzione generale per le Politiche del Personale, dell’Innovazione, del Bilancio e della Logistica e della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento della Funzione Pubblica, la Direzione Generale per l’Attività Ispettiva osserva quanto segue.

Per quanto concerne, invece, il procedimento di impugnazione delle sanzioni disciplinari, l’abrogazione dell’art. 56, T.U. citato ha comportato per i dipendenti pubblici il divieto di ricorrere al collegio di conciliazione, istituito presso la Direzione provinciale del lavoro, con le modalità previste dall’art. 7, commi 6 e 7, della legge n. 300/1970 o meglio conosciuta come Statuto dei lavoratori.

Occorre, tuttavia, sottolineare che la legge n. 183/2010 ha introdotto alcune modifiche in merito alla disciplina della conciliazione ed arbitrato nelle controversie in materia di lavoro. In proposito, si evidenzia che in virtù dell’abrogazione da parte dell’art. 31, comma 9, degli artt. 65 e 66, D.Lgs. n. 165/2001, le procedure di conciliazione ed arbitrato di cui agli artt. 410 e 412 c.p.c. risultano esperibili altresì da parte dei dipendenti del settore pubblico in relazione alle controversie di lavoro.

La Direzione ritiene che in virtù della successiva regolamentazione della materia ad opera del c.d. Collegato lavoro, anche le controversie aventi ad oggetto l’impugnazione delle sanzioni disciplinari possono essere trattate dalle nuove commissioni di conciliazione che, per effetto del mutamento di procedura, potrebbero successivamente proseguire nella trattazione del contenzioso nella veste di collegio arbitrale.

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1 commento su “Lavoro pubblico e impugnazione delle sanzioni disciplinari”

  1. c.c. dott. Marco Pasetto
    Ufficiale C.te del Corpo della Polizia Municipale – U.P.G.
    San Donà di Piave
    3283131173
    32020 Caviola, via De Biasio 3
    e-mail [email protected]

    o g g e t t o : applicabilità dell’art. 7, 6° e 7° co., l. 20 maggio 1970, nr. 300, “Statuto del Lavoratori” al pubblico impiego.

    San Donà di Piave, 23 aprile 2012

    Come si ricorderà, fino all’entrata in vigore del d.lgs. 27 ottobre 2009, nr. 150 (d’ora in poi “decreto Brunetta”), sussisteva la possibilità, da parte del dipendente pubblico “privatizzato”, di opporre le sanzioni disciplinari comminate tramite la previsione contrattuale.

    Tale possibilità, che in precedenza era prevista in via “transitoria” in forza del contenuto dei comma 8 e 9 del vecchio art. 55 del d.lgs. 30 marzo 2011, nr. 165, era rimasta effettiva in seguito della stipulazione del c.c.n.q. 23 gennaio 2001, il quale indicava quale rimedio ai provvedimenti sanzionatori il ricorso all’arbitrato, nelle sue due forme (Arbitro Unico o Collegi Arbitrali di Disciplina), oltre che, naturalmente, al Giudice del Lavoro.

    La procedura stragiudiziale, oltre che parificare secondo il dettato costituzionale il lavoratore pubblico “privatizzato” al dipendente privato, si rivelava quanto mai opportuna sia per i dipendenti che per la pubblica amministrazione, sollevando i primi dai costi di un procedimento in cui si rendeva necessario l’intervento di un professionista abilitato, la seconda rendendo più snella la soluzione della controversia e, soprattutto, liberando gli uffici giudiziari da un notevole potenziale carico di lavoro.

    Per non parlare poi dei casi, tutt’altro che infrequenti, di procedimenti disciplinari strumentali, intrapresi per costringere gli operatori del pubblico impiego a seguire le “direttive” date dal politico, direttive non sempre aderenti a principi di legalità ed imparzialità …

    Con l’avvento del “decreto Brunetta” tale possibilità scompariva, poiché l’art. 55 del d.lgs. 165 veniva sostituito dal 1° comma dell’art. 68 del “decreto” il quale, per quanto a noi qui interessa, vieta alla contrattazione collettiva di prevedere il rimedio stragiudiziale avverso il provvedimento che commina la sanzione al lavoratore pubblico.

    Sennonchè – e non è chiaro se sia stata una mera dimenticanza o la cosa sia stata voluta – la novella riportava in vita, almeno per quanto riguarda il settore pubblico (nel privato il problema non si è mai posto), quanto previsto in merito dallo Statuto del Lavoratori (l. 30 maggio 1970, nr. 300).
    Si ritiene, però, che il Legislatore abbia ben tenuto in mente l’esistenza della previsione statutaria, essendo la norma, in caso contrario, facilmente cassabile per incostituzionalità, costituendo evidente violazione dei principi di parità tra i cittadini.

    Infatti, come si diceva poc’anzi, l’art. 55, 3° comma, d.lgs. 165/2001, nella nuova formulazione, prevede che “La contrattazione collettiva non può istituire procedure di impugnazione dei provvedimenti disciplinari”, ed il precedente art. 2, 3° comma, dello stesso decreto recita: “I rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, fatte salve le diverse disposizioni contenute nel presente decreto, che costituiscono disposizioni a carattere imperativo.”.

    Se da un lato non risulta sussistere alcuna diversa disposizione, in subjecta materia, contenuta nella norma in esame che escluda l’applicabilità al dipendente degli Enti Locali dello “Statuto dei Lavoratori”, tanto che nel silenzio della Legge deve ritenersi applicabile in via generale la norma, dall’altro v’è lo specifico richiamo alla vigenza di esso nei confronti dei dipendenti pubblici (cfr. art. 51, 2° co., d.lgs. 165/01).

    Ciò comporta che è sempre stata riconosciuta pacifica la necessità in materia disciplinare del rispetto della procedura indicata nell’art. 7, l. 300/1970.

    Il disposto che qui interessa prevede il diritto del lavoratore di avvalersi della procedura conciliativa indicata dal 6° comma, procedura che se in precedenza era impedita dalla sussistenza di disposizioni contrattuali (acc. 23 gennaio 2001 et acc. 23 luglio 2003), ora è pienamente perseguibile atteso il disposto del medesimo art. 7, ove si prevede che “Salvo analoghe procedure previste dai contratti collettivi di lavoro e ferma restando la facoltà di adire l’autorità giudiziaria, il lavoratore al quale sia stata applicata una sanzione disciplinare puo’ promuovere, nei venti giorni successivi, anche per mezzo dell’associazione alla quale sia iscritto ovvero conferisca mandato, la costituzione, tramite l’ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione, di un collegio di conciliazione ed arbitrato, composto da un rappresentante di ciascuna delle parti e da un terzo membro scelto di comune accordo o, in difetto di accordo, nominato dal direttore dell’ufficio del lavoro. La sanzione disciplinare resta sospesa fino alla pronuncia da parte del collegio.”.

    Nel corso del tempo, però, era intervenuto un parere espresso dal Dipartimento della Funzione Pubblica (nr. DFP 34439 P-1.2.3.3. del 22 luglio 2010) secondo il quale, con una interpretazione tanto unilaterale quanto discutibile, si sosteneva in buona sostanza che, dato che il novellato d.lgs. 165/2001 non faceva alcun riferimento all’art. 7 dello Statuto (dimenticando però e saltando a piè pari il contenuto del secondo comma dell’art. 51 del medesimo d.lgs. 165), questo non fosse applicabile al pubblico impiego “contrattualizzato”.

    Nel corso degli ultimi tempi, perciò, la situazione è rimasta incerta, vedendo Direzioni Provinciali del Lavoro che evitavano di entrare nel merito della questione non riscontrando le richieste di costituzione del Collegio di Conciliazione formulate da dipendenti pubblici, ed altre (molto acuta e lodevole quella di Venezia) che ritenevano de plano che il diritto ad opporre il provvedimento sanzionatorio ex art. 7, 6° e 7° comma, Stat. Lav., da parte del lavoratore della pubblica amministrazione non fosse stato minimamente obnubilato dal “decreto Brunetta” ma, al contrario, fosse stato rafforzato avendo eliminato i vincoli “contrattuali” che ne impedivano prima il legittimo esercizio.

    Finalmente nella vexata quaestio è intervenuto pochi giorni fa il Ministero del Lavoro il quale, nel riscontrare un interpello di una Organizzazione Sindacale, assumeva – in verità in modo alquanto “sibillino”, almeno avuto riguardo alla capacità intellettiva di certi funzionari degli uffici del personale – l’orientamento secondo il quale la procedura di impugnazione della sanzioni disciplinari ex art. 7, Stat. Lav. è legittimamente esperibile da parte del dipendente pubblico.

    Ad una prima superficiale lettura dell’interpello formulato dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Direzione Generale per l’Attività Ispettiva, nr. 10/12 del 10 aprile 2012, apparirebbe rilevare assunta posizione contraria da parte del dicastero: nella trappola (ma dobbiamo dire in modo più che giustificato, vista l’esperienza pregressa del 22 luglio 2010) è caduta anche l’Organizzazione Sindacale che maggiormente si è spesa nella difesa del diritto denegato dal Dipartimento F.P., che ha inteso che il Ministero del Lavoro avesse fatta propria la precedente inconsistente tesi contraria.

    Infatti il relatore, riprendendo il noto parere del Dipartimento per la Funzione Pubblica nr. DFP 34439 P-1.2.3.3. del 22 luglio 2010, in un primo momento afferma che nell’ambito della normativa sul pubblico impiego di cui al d.lgs. 165/2001, nel testo novellato dal c.d. “decreto Brunetta”, l’abrogazione dell’art. 56( ) aveva comportato il divieto in capo al dipendente pubblico di ricorrere avanti al collegio arbitrale previsto dai comma 6 e 7 dell’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori.

    In realtà tale interpretazione (come palesemente ammesso dalla prassi e dagli stessi uffici) non aveva fondamento alcuno, considerato che da un lato la norma abrogata rimandava alle procedure di conciliazione indicate dal successivo art. 66, e faceva riferimento all’art. 7 cit. solo per relationem nel conferire alla norma primaria, cioè all’art. 66, le “modalità” e gli “effetti” previsti dallo Statuto, e dall’altro perché le disposizioni dell’art. 7 sono norma di carattere generale autonomamente efficace in quanto la sua applicazione al pubblico impiego era (ed è) prevista espressamente dall’art. 51( ), non interessato quest’ultimo dalla riforma “Brunetta”.

    Nei fatti invece, ponendovi appena un po’ d’attenzione, a superare l’impasse è la stessa nota ministeriale.

    Infatti questa precisa che “Occorre, tuttavia [cioè il termine dà il senso della contrapposizione a quanto in precedenza detto: “al contrario”, “però”, “in contrapposizione a”, …], sottolineare che la l. nr. 183/2010 ha introdotto alcune modifiche in merito alla disciplina della conciliazione ed arbitrato nelle controversie in materia di lavoro.” (cfr. Ministero Lav. e P.S., Dir. Gen. Att. Isp., 10 aprile 2012 nr. 10/12).

    Quindi, in buona sostanza, il “collegato lavoro” del 2010 avrebbe “… in virtù dell’abrogazione da parte dell’art. 31, comma 9, degli artt. 65 e 66, d.lgs. nr. 165/2001, le procedure di conciliazione ed arbitrato di cui agli artt. 410 e 412 c.p.c. risultano esperibili altresì da parte dei dipendenti del settore pubblico in relazione alle controversie di lavoro …” (Min.Lav., ibidem).

    Ma non solo.

    La nota poi prosegue con l’affermare che “Il nuovo tentativo di conciliazione (facoltativo) avendo una disciplina di fonte legale non subisce la preclusione di cui all’art. 55, comma 3, già citato e di conseguenza la portata generale della disciplina ne consente l’applicabilità alle ipotesi di impugnazione delle sanzioni disciplinari irrogate nei confronti dei pubblici dipendenti.” (Min.Lav., ibidem).

    Ed infine si sofferma nello specificare che “… con particolare riferimento all’art. 412 c.p.c., nella parte in cui consente la risoluzione della lite in via arbitrale, che risulta compatibile con quanto disposto dall’art. 73, comma 1, d.lgs. nr. 150/2009, ai sensi del quale le sanzioni disciplinari non possono essere impugnate di fronte ai collegi arbitrali di disciplina. Quest’ultima preclusione, infatti, attiene esclusivamente a questi particolari organismi arbitrali istituiti presso ciascuna amministrazione.[ in buona sostanza i vecchi “Collegi Arbitrali di Disciplina” considerati dalla seconda parte del 2° comma dell’art. 6 del c.c.n.q. 23 gennaio 2001, n.d.r.]” (Min.Lav., ibidem).

    Quindi, dalla nota in esame – la quale, è bene notarlo, non entra minimamente nel merito dell’applicabilità o meno da parte del pubblico impiego allo stato dell’art. 7 Stat. Lav., se non solo facendo un riferimento “storico” d’epoca pre-legge 183/2010 – rilevano tre essenziali elementi:

    – il primo che l’abrogazione degli artt. 65 e 66 del d.lgs. 165/2001 non ha minimamente intaccato l’applicabilità norme aventi natura legale (e non contrattuale);

    – il secondo che la procedura di conciliazione ex artt. 410 e ssgg. c.p.c. è applicabile al pubblico impiego in quanto norma legale e non sussistendo alcuna preclusione espressa ad essa rinvenibile nel d.lgs. 165/2001;

    – ed infine che le condizioni riferibili alle disposizioni contenute nel novellato codice di procedura, in quanto di derivazione legale e non contrattuale, sono applicabili al pubblico impiego assumendo natura di disposizione legislativa di portata generale.

    Anche a voler considerare fondate le considerazioni contenute nella nota del Dipartimento per la Funzione Pubblica nr. DFP 34439 P-1.2.3.3. del 22 luglio 2010, esse in ogni caso si basavano sull’abrogazione dell’art. 56 del d.lgs. 165/2001 nella vigenza dell’art. 66, e devono ritenersi quindi – lo ripetiamo, ancorchè condivisibili, ma così non è – superate dalla norma sopravvenuta.

    Ora appare evidente che tale tesi viene necessariamente a cadere, considerato che la sua motivazione oltretutto era basata sul rapporto, in negativo, tra gli articoli 56 e 66, rapporto ora non considerabile stante l’abrogazione di entrambi.

    Perciò, se è vero quello che sostiene il Ministero, e cioè che una disciplina di fonte legale non subisce la preclusione di cui all’art. 55, comma 3, d.lgs. 165/2001, e che di conseguenza la portata generale di una norma di specie ne consente l’applicabilità alle ipotesi di impugnazione delle sanzioni disciplinari irrogate nei confronti dei pubblici dipendenti, è del tutto ovvio che una fonte che è appunto 1 – di natura legale e 2 – di carattere assolutamente generale (cioè i due principi fondanti la tesi espressa dal Ministero) quale è quella contenuta nell’art. 7, co. 6 e 7, dello Statuto dei Lavoratori non può ritenersi disattendibile vuoi per le considerazioni espresse dal Dicastero stesso, vuoi per la precisa disposizione contenuta nel secondo comma dell’art. 51, d.lgs. 165/2001 cit. .
    (dott. marco Pasetto)

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