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Le sanzioni disciplinari devono essere ragionevoli, lo precisa la Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione ritorna sul tema della gradualità della sanzione in conseguenza di un provvedimento disciplinare e lo fa con la sentenza dello scorso 3 febbraio 2012 n. 1632. Per prima cosa la corte rileva che esserci ragionevolezza nella sanzione che deve essere attribuita al proprio dipendente; in particolare, non deve ravvisarsi violazione dei principi e delle norme in materia di gradualità e proporzionalità, buona fede, correttezza, non discriminazione e ragionevolezza nell’applicazione delle sanzioni disciplinari, nonché dell’art. 25, comma 1, lett. e) e g) del CCNL 6.7.1995 per il comparto regioni e autonomie locali.

Nella fattispecie la Corte ha sentenziato su una causa che ha visto di fronte il Comune di San Mauro Pascoli e un suo dipendente: questo adiva il Tribunale di Forlì impugnando due sanzioni disciplinari e il licenziamento disciplinare con preavviso comunicatogli con nota del 4.6.2001 da tale ente.

La Corte ricorda che la richiamata lett. g) del testo contrattuale, a cui era stato fatto riferimento nella lettera di licenziamento, autorizza il licenziamento in caso di comportamenti tali da non consentire la prosecuzione del rapporto se valutati secondo i criteri di cui all’art. 25, comma 1, menzionante, tra l’altro, la sussistenza di circostanze aggravanti o attenuanti con particolare riguardo al comportamento del lavoratore e ai suoi precedenti disciplinari nel biennio e al comportamento verso gli utenti, si lamenta l’omessa considerazione da parte del giudice di appello della avvenuta dichiarazione di nullità delle due precedenti sanzioni disciplinari e quindi della mancanza di quella recidiva costituente il presupposto dell’espresso giudizio di notevole gravità della violazione disciplinare.

La Corte precisa che ai fini della valutazione in giudizio circa la sussistenza di un illecito disciplinare integrante gli estremi della giusta causa o del giustificato motivo assumono rilievo i fatti contestati posti a base del provvedimento risolutivo e non le qualificazioni eventualmente operate dal datore di lavoro, sicché, in particolare, l’erronea indicazione delle disposizioni legali o contrattuali violate non comporta né l’invalidità della contestazione né che il giudice debba limitare la sua valutazione all’accertamento che il fatto violi le specifiche norme di cui si alleghi la violazione, competendo invece al giudice la qualificazione giuridica del fatto contestato (Cass. n. 4175/1997 e analogamente Cass. n. 13905/2000, e 758/2006). Deve anche rilevarsi che l’insussistenza di alcuni dei fatti contestati non preclude al giudice di ritenere ugualmente giustificato il licenziamento, in ragione della non decisività del giudizio del datore di lavoro circa la gravità dei fatti (Cass. n. 17514/2010).

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