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Le ingiurie verso il datore di lavoro non giustificano il licenziamento

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 9422 del 21 aprile 2010, ha ribadito che in presenza di ingiurie verso il proprio datore di lavoro, il lavoratore non può essere licenziato senza che si proceda secondo i dettami dell’articolo 7 dello Statuto dei lavoratori.

Non può essere invocata, da parte del datore di lavoro, la giusta causa, anche in presenza in minacce e ingiurie o di gravi insubordinazione tanto da ledere l’elemento della fiducia che vige in ogni rapporto di lavoro.

Il datore di lavoro anche in presenza di questi elementi non può procedere, in maniera unilaterale, al licenziamento senza il necessario preventivo rispetto della procedura disciplinare appositamente prevista (articolo 7).

In questo caso può essere richiesta dal giudice la constatazione della violazione dell’articolo 7 e dell’articolo 2119 del codice civile.

Si ricorda che in base all’articolo 2119 del codice civile ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto prima della scadenza del termine, se il contratto è a tempo determinato, o senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto.

Se il contratto è a tempo indeterminato, al prestatore di lavoro che recede per giusta causa compete l’indennità indicata all’articolo 2118 del codice civile.

Non costituisce giusta causa di risoluzione  del contratto il fallimento  dell’imprenditore o la liquidazione coatta amministrativa dell’azienda.

La Corte di Cassazione ha osservato che è giurisprudenza consolidata che il licenziamento motivato da una condotta colposa o comunque manchevole del lavoratore, indipendentemente dalla sua inclusione o meno tra le misure disciplinari della specifica disciplina del rapporto, deve essere considerato di natura disciplinare e, quindi, deve essere assoggettato alle garanzie dettate in favore del lavoratore dal secondo e terzo comma dell’art. 7 della legge n. 300 del 1970 (Statuto dei lavoratori) circa la contestazione dell’addebito ed il diritto di difesa (si veda a questo proposito Cassazione 3.8.07 n. 17652).

Non solo, a nulla rileva, ovviamente, che il comportamento del dipendente sia stato ritenuto reato dal giudice penale, atteso che tale evidenza, se vale a qualificare l’illiceità, non esclude che al lavoratore incolpato debba essere contestato l’accaduto onde consentirgli di dare le giustificazione che egli assume rilevanti nell’ambito del rapporto di lavoro.

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