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Cassazione, il tempo divisa si paga

 La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro del 31 gennaio 2011 n. 2135, ha equiparato il tempo di vestizione e vestizione come tempo di lavoro che deve essere, di conseguenza, normalmente retribuito.

Ossia, per la Suprema corte

Nel rapporto di lavoro subordinato, il tempo occorrente per indossare la divisa aziendale, ancorché relativo a fase preparatoria del rapporto, deve essere autonomamente retribuito ove la relativa prestazione, pur accessoria e strumentale rispetto alla prestazione lavorativa, debba essere eseguita nell’ambito della disciplina d’impresa e sia autonomamente esigibile dal datore di lavoro, il quale può rifiutare la prestazione finale in difetto di quella preparatoria

Il decreto n. 66 del 2003, che per inciso è attrattivo della Direttiva comunitaria n. 93/104/CE, definisce come orario di lavoro qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni. Per diretta espressione del decreto è di per sé evidente che il datore di lavoro ha l’obbligo, in relazione alle caratteristiche pericolose della prestazione lavorativa dei suoi dipendenti, di fornire agli stessi dei mezzi di protezione individuali e di osservare che i medesimi siano indossati al momento dell’inizio dell’attività lavorativa. Ecco perché è abbastanza chiaro che il tempo necessario affinché i dipendenti, all’interno dell’azienda, provvedano a indossare i mezzi di protezione, è un tempo messo a disposizione del datore di lavoro e, di conseguenza, retribuito.

Non solo, dello stesso parere esistono anche diverse sentenze della stessa corte di Cassazione: nel rapporto di lavoro subordinato, il tempo occorrente per indossare la divisa aziendale, ancorché relativo a fase preparatoria del rapporto, deve essere autonomamente retribuito ove la relativa prestazione, pur accessoria e strumentale rispetto alla prestazione lavorativa, debba essere eseguita nell’ambito della disciplina d’impresa e sia autonomamente esigibile dal datore di lavoro, il quale può rifiutare la prestazione finale in difetto di quella preparatoria (Cass. n. 19358/2010).

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