Si riconosce l’infortunio in itinere solo se il percorso è noto

 Non è possibile procedere al riconoscimento di infortunio sul lavoro se il percorso utilizzato dal lavoratore si discosta da quello normalmente utilizzato: ecco quanto afferma l’Inail .

Infatti, nella fattispecie, la decisione del lavoratore di usufruire del permesso richiesto e concesso dall’azienda per recarsi presso la propria abitazione, anziché per andare subito nella sede di lavoro dopo la visita medica presso l’Azienda sanitaria Localel, pone in essere una causa interruttiva di ogni nesso tra lavoro, rischio ed evento che esclude la possibilità di ottenere l’indennizzo per infortunio in itinere (Corte di Cassazione – Sentenza 22 febbraio 2012, n. 2642).

La Corte di Cassazione a cui il lavoratore si era rivolto nel terzo grado di giudizio, ha rigettato il suo ricorso sottolineando che la scelta del lavoratore di dirigersi verso la propria abitazione, percorrendo strade del tutto diverse da quelle che dall’ASL, l’avrebbero riportato in azienda, è la conseguenza di un scelta, quella di fruire di ore di permesso/ferie da lui chieste, che interrompe il nesso causale fra il suo viaggio e l’occasione di lavoro.

I criteri per identificare un contratto di associazione in partecipazione

 La Corte di Cassazione con la sentenza n. 2496 dello scorso 21 febbraio 2012 ci permette di fare chiarezza sui criteri identificativi che consentono di classificare un contratto esistente come associazione in partecipazione.

In materia di distinzione fra contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell’associato e contratto di lavoro subordinato con retribuzione collegata agli utili dell’impresa, la Corte di Cassazione, Sez. Lav. n. 19475 del 19 dicembre 2003 e Cassazione Sez. Lav. del 22 novembre 2006 n. 24781), ha affermato che l’elemento differenziale tra le due fattispecie risiede nel contesto regolamentare pattizio in cui si inserisce l’apporto della prestazione lavorativa dovendosi verificare l’autenticità del rapporto di associazione, che ha come elemento essenziale, connotante la causa, la partecipazione dell’associato al rischio di impresa, dovendo egli partecipare sia agli utili che alle perdile.

La tutela della 104/92 sul trasferimento della sede di lavoro

 Il Giudice del lavoro del Tribunale di Matera con  decisione n.540  pubblicata il 6 febbraio 2012 ha definito una questione che fa riferimento alla tutela riconosciuta dalla legge n.104/92 ai lavoratori dipendenti, in rapporto alla normativa della legge Brunetta sulla competenza dei dirigenti pubblici in materia di organizzazione e gestione del personale.

La legge 104/92 è stata recentemente modificata dall’articolo 34 della legge 193/2010 inserendo alcune variazioni al comma 2 dove ora si stabilisce che il lavoratore che presta assistenza, oltre al coniuge, a parenti o affini del disabile entro il secondo grado in condizione di gravità, ha diritto a scegliere la sede di lavoro più vicina al domicilio della persona da assistere e non può essere trasferito senza il suo consenso ad altra sede.

Il controllo della posta elettronica da parte del datore di lavoro

 Interessante sentenza della Corte di Cassazione su una disciplina delicata e importante quale il controllo degli accessi a Internet e alla posta elettronica dei dipendenti con la sentenza, sezione Lavoro, del 23 febbraio 2012 n. 2722. È pacifico che il datore di lavoro non può controllare la posta elettronica e degli accessi ad internet da parte del datore di lavoro per verificare la corretta esecuzione della prestazione, ma è perfettamente lecito ex post.

Ovvero, quando l’azienda ritiene di essere stata lesa a seguito dell’emersione di elementi di fatto tali da raccomandare l’avvio di una indagine retrospettiva può accedere alla corrispondenza telematica del dipendente e infliggere le sanzioni disciplinari.

Nella fattispecie, il datore di lavoro aveva ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa di un suo dipendente, quadro direttivo della Banca Bipop-Carire s.p.a, per aver divulgato attraverso l’invio di e-mail a soggetti esterni all’azienda notizie riservate riguardanti un cliente dell’Istituto e per aver posto in essere, grazie a queste notizie, operazioni finanziarie da cui aveva tratto un vantaggio personale.

Per la sicurezza sul lavoro il datore di lavoro è sempre responsabile

 La Corte di Cassazione, sentenza n. 3983/2012, interviene per ribadire un principio importante, ovvero è responsabile dell’infortunio del lavoratore anche quando non si attiene alle procedure definite a questo scopo. In effetti, per la Suprema corte l’obbligo del datore di lavoro si estende anche quando il lavoratore instauri comportamenti non ritenuti confacenti alla propria attività lavorativa.

A nulla vale, per la Corte di Cassazione, ogni giustificazione in merito da parte del datore di lavoro anche l’eventuale supposto comportamento del lavoratore ritenuto imprevedibile ed imprudente perché, nella fattispecie, per il suo diretto responsabile aveva operato senza spegnere i motori per dar corso alla pulizia del nastro e per procedere al suo riallineamento.

L’importanza della formazione nell’apprendistato

 Un’importante sentenza della Corte di Cassazione in materia di formazione nel nuovo contratto di apprendistato; infatti, la Suprema corte, attraverso la sentenza del 13 febbraio 2012 n. 2015, ha precisato che nel contratto di formazione e lavoro l’attività formativa, compresa nella causa negoziale, può essere somministrata al lavoratore anche nel corso dell’effettivo svolgimento delle mansioni, e non necessariamente precederlo.

La Sezione Lavoro della Corte di Cassazione ha voluto precisare la sua posizione in merito al nuovo contratto di lavoro tanto da voler intervenire sulla licenziabilità “ad nutum” in caso di apprendistato “non genuino” che nasconde un rapporto a tempo indeterminato. Nella fattispecie la Corte è intervenuta per dirimere il caso di una lavoratrice che aveva sostenuto di essere stata inquadrata dal 19 novembre 1999 con contratto di apprendista e di essere stata poi licenziata il 31 ottobre 2002 per il termine del contratto. Secondo la lavoratrice l’impresa aveva dissimulato un  rapporto di lavoro a tempo indeterminato e il recesso doveva essere ritenuto ingiustificato.

La retribuzione per il tempo tuta, sentenza del Tribunale di Milano

La giurisprudenza ritorna a prendere posizione su un tema particolarmente spinoso, ossia quando esiste l’obbligo contrattuale di indossare la divisa aziendale si ha anche il diritto ad essere retribuiti per il tempo necessario? Per il Tribunale di Milano occorre discriminare le diverse attività, ossia eterodiretta o meno e se l’attività rientra tra le attività eterodiretta spetta al lavoratore il diritto alla retribuzione.

Nella fattispecie e secondo la tipologia contrattuale in essere, il datore di lavoro può obbligare, per via del particolare rapporto di lavoro, i propri dipendenti  ad indossare la divisa solo nel luogo di lavoro nonché a timbrare, tanto all’entrata quanto all’uscita, avendo già indossato i relativi indumenti solo all’interno dei locali aziendali.

Le sanzioni disciplinari devono essere ragionevoli, lo precisa la Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione ritorna sul tema della gradualità della sanzione in conseguenza di un provvedimento disciplinare e lo fa con la sentenza dello scorso 3 febbraio 2012 n. 1632. Per prima cosa la corte rileva che esserci ragionevolezza nella sanzione che deve essere attribuita al proprio dipendente; in particolare, non deve ravvisarsi violazione dei principi e delle norme in materia di gradualità e proporzionalità, buona fede, correttezza, non discriminazione e ragionevolezza nell’applicazione delle sanzioni disciplinari, nonché dell’art. 25, comma 1, lett. e) e g) del CCNL 6.7.1995 per il comparto regioni e autonomie locali.

La responsabilità solidale dell’appaltatore

Nuovo interpello, n. 2 del 27 gennaio 2012, della Direzione Generale per l’Attività Ispettiva del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali che ha risposto ad un quesito del Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro, in merito alla corretta interpretazione dell’art. 35, comma 28, del D.L. n. 223/2006 (convertito dalla legge n. 248/2006), concernente la responsabilità solidale dell’appaltatore e degli eventuali subappaltatori per il versamento delle ritenute fiscali e dei contributi previdenziali ed assicurativi dei dipendenti impiegati nell’esecuzione dei lavori.

Il mancato versamento dei contributi e il reato di appropriazione indebita

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 2723 dello scorso 23 gennaio 2012, ha stabilito che non si può riconoscere il reato di appropriazione indebita al datore di lavoro qualora non versi per  i propri dipendenti le trattenute previste alla cassa edile.

La ratio nasce dalla impossibilità di equiparare le somme da versare alla Cassa Edile ai contributi previdenziali e assistenziali. Infatti, la Cassa Edile non è Ente previdenziale e quindi il fatto ascritto integrava solo l’illecito amministrativo di cui all’art. 13 D.Lvo 19 12.1994 n. 758, come per altro statuito dalla Corte di Cassazione con la decisione Sezioni Unite del 27 10.2004 n. 1.127: la Corte osserva che le Casse Edili non appartengono alla categoria degli Enti previdenziali, sicdi conseguenza il mancato versamento delle somme trattenute dal datore di lavoro sulla retribuzione del dipendente e da destinare alla Cassa Edile per ferie, gratifiche natalizie e festività non integra il reato di appropriazione indebita, ma solo l’illecito amministrativo previsto dall’art. 8 1  l.741/59 come sostituito dall’art 13 d.lg. 758/94.

Il lavoratore deve essere tutelato anche nella pausa pranzo

 La Corte di Cassazione, con l’ordinanza del 19 dicembre 2011 n. 27426, ha ribadito un importante principio: l’infortunio in itinere è configurabile anche nell’ipotesi in cui il sinistro occorso al lavoratore non sia avvenuto nella pubblica strada lungo il tragitto tra l’abitazione e il luogo di lavoro, ovvero anche nel luogo di consumazione dei pasti, fatta eccezione per gli ambienti di proprietà del danneggiato.

Immigrazione clandestina, ultima sentenza della Consulta

La Corte Costituzionale, con sentenza n. 331 del 12 dicembre 2011, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 12, comma 4-bis, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), aggiunto dall’art. 1, comma 26, lettera f), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica).

La sentenza si riferisce nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai reati previsti dal comma 3 del medesimo articolo, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.

La Privacy sul lavoro e le nuove tecnologie

Le nuove tecnologie introducono nuove controversie di lavoro tanto che nuovi casi vengono sempre più sottoposte al Garante della Privacy o al giudice del lavoro che si trova a decidere sui provvedimenti disciplinari che il datore di lavoro attribuisce ai propri dipendenti per un uso improprio della posta elettronica o di Internet. In effetti, è lo stesso Garante della Privacy che, nella su le linee guida del Garante per posta elettronica e internet pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 58 del 10 marzo 2007, ha ricordato che

Dall’esame di diversi reclami, segnalazioni e quesiti è emersa l’esigenza di prescrivere ai datori di lavoro alcune misure, necessarie o opportune, per conformare alle disposizioni vigenti il trattamento di dati personali effettuato per verificare il corretto utilizzo nel rapporto di lavoro della posta elettronica  della rete Internet